La giornalista Nidzara Ahmetasevic ha parlato con Zahra, una donna afgana richiedente asilo in Europa. Attraverso il suo resoconto rivela le violenze che i migranti, soprattutto le donne, devono sopportare ai confini europei, e che spesso non vengono raccontate.

di Nidzara Ahmetasevic/traduzione Marta Visentin

Sono passati più di tre anni da quando Zahra (25) lasciò la sua casa in Afghanistan. Partì con il figlio e il marito e la testa piena di speranza di trovare un posto dove poter essere felici e al sicuro. Dopo tre anni, il viaggio non è ancora terminato. Dall’inferno dell’Afghanistan agli orrori della Turchia, dove vennero tenuti dai trafficanti, da Moria, il campo infernale di Lesbo, in Grecia, alla Rotta Balcanica, passando per gli incontri con le guardie di frontiera europee e la violenza che hanno dovuto sopportare nel tentativo di trovare pace e felicità.

Ho contattato Zahra tramite WhatsApp mentre era in Bosnia e Herzegovina e viveva con altre famiglie a Bosanska Bojna, un paesino vicino al confine con la Croazia. Il paese è semi-abbandonato a causa della guerra in Bosnia agli inizi degli anni 90. La maggior parte degli abitanti se ne andarono, diventando rifugiati e richiedenti asilo in diverse parti del mondo.

picture by Julie Ricard @unsplash

Alla fine del 2020, le loro case vuote divennero rifugio per circa 100 famiglie provenienti dall’Afghanistan, arrivate in Bosnia dopo aver camminato fin dalla Grecia. Prima di venire in Bosnia, fino a Settembre dell’anno scorso erano stati al campo di Moria: abbandonarono il campo in seguito all’incendio che lo rase al suolo. Mentre se ne andavano, il pensiero di molti era che non sarebbe potuto succedere nulla di peggio di quello su suolo europeo.

Non ho mai incontrato Zahra personalmente, ma continuiamo a sentirci su WhatsApp ancora adesso che si trova in un altro paese europeo, mentre si prepara a una nuova partenza. Durante una delle nostre conversazioni, decise di raccontarmi tutta la sua storia, chiedendomi alla fine di renderla pubblica: “perché tutti possano conoscere la nostra vita.”

E questa è la sua storia, ma anche la storia di molte altre donne che sono costrette a emigrare dai loro paesi alla ricerca di asilo da qualche altra parte del mondo. Una politica di chiusura delle frontiere rende la loro sofferenza ancor più profonda, finché viene fatta rispettare con la violenza e la criminalizzazione dei migranti. Tuttavia queste persone fanno di tutto perché le loro speranze e i loro sogni non vengano uccisi. Vale anche per Zahra.

“Sono nata e cresciuta in Afghanistan. Prima di partire con la mia famiglia, lavoravo come insegnante, un lavoro pericoloso per una donna nel mio paese. 

Zahra picture by Alba M. NNK

Mi sposai e continuai a lavorare. Mi sentivo al tempo stesso sempre meno sicura a vivere lì. Decidemmo di andarcene dopo l’ennesimo attacco terroristico a cui avevo assistito. Erano le 7 di mattina, molto vicino a casa mia. Sentimmo un rumore fortissimo e uscimmo di casa per vedere cosa stava succedendo. Quello che vedemmo fu un vero e proprio disastro: decine di morti, bambini, anziani, donne: pezzi di corpi ovunque. Quando arrivarono la polizia e i soccorsi, raccolsero parti di corpi, li misero in buste di plastiche e li lasciarono nella moschea fino a quando non arrivarono altri aiuti. Alcune parti furono lasciate per strada e i gatti randagi venivano a mangiarle. Perciò decidemmo di partire. 

Lasciammo la nostra casa finalmente nel 2017, poco dopo che io avevo partorito.

La prima fermata è stata l’Iran. Camminammo per 16 giorni per arrivare nella città dove c’erano alcuni nostri familiari. Dopo tre mesi, realizzai che non c’era niente per me e per la mia famiglia in quel paese. Non potevo lavorare né andare a scuola. La vita era difficile.

Così partimmo per la Turchia, mia madre invece restò. Noi continuammo il viaggio con un’altra famiglia. Spero un giorno di non avere più nessuna memoria della Turchia e di quello che ci è successo in quel paese, a me in particolare.

picture by Julie Ricard @unsplash

Dovemmo restare per sei mesi nel posto in cui ci avevano chiuso i trafficanti. Le donne separate dagli uomini, anche dai mariti. I trafficanti vivevano nella stessa casa. Io ero in una stanza con credo 14 altre donne e i loro bambini.

Un giorno, un trafficante prese me e il mio bambino, separandoci dagli altri. Mi dissero che se dicevo a mio marito anche solo una parola di quello che stava per succedere, ci avrebbe ucciso tutti. E mi violentarono. Di fronte al mio bambino che non smetteva di piangere.

Ma dovevamo rimanere là. Il nostro obiettivo era raggiungere la Grecia, l’Unione Europea. Ci vollero nove tentativi via mare. Finalmente raggiungemmo Lesbo, l’UE.

Un barlume di speranza era spuntato di nuovo nella mia vita. Eravamo felici, finalmente in Unione Europea, finalmente al sicuro. O almeno ci speravamo.

Così andammo al campo di Moria e presentammo la richiesta di asilo. Dopo un anno e mezzo di attesa e di permanenza nel campo la richiesta ci è stata respinta. Fu per me un periodo estremamente difficile. A un certo punto non riuscivo più ad andare avanti in quel modo e tentai il suicidio. Mi salvarono. Tentai di nuovo. Mi salvarono un’altra volta.

Dopo un anno e mezzo, e due tentativi di suicidio, trovammo il modo di arrivare ad Atene, al continente, ma decidemmo immediatamente di continuare il viaggio verso altri paesi europei. Per arrivarci, si deve attraversare l’Albania, il Montenegro e la Bosnia. Tutta a piedi. 

Zahra picture by Alba M. NNK

Dopo vari respingimenti da parte dell’Albania, raggiungemmo la Bosnia. Il passo successivo era la Croazia. Andammo direttamente al confine e iniziò il “gioco” [il tentativo di attraversare il confine in maniera irregolare], cercando più volte di attraversarlo. Più di 20 volte da Settembre a Febbraio. 

Un giorno però riuscimmo ad attraversare il fiume tra i due paesi. Eravamo bagnati fradici, noi, le scarpe e i vestiti. Anche i bambini erano tutti zuppi. La polizia ci trovò e ci rimandò in Bosnia. Faceva molto freddo, era notte fonda. Nonostante tutto ciò, ci mandarono indietro. 

La volta successiva provammo ad attraversare un bosco. Molte persone ci provano. Lungo la strada, mentre camminavamo da giorni, incontrammo altre persone, ma anche bambini che si erano persi o che erano stati separati dalle loro famiglie e che erano rimasti da soli nel bosco. Prendemmo con noi due di loro. 

Fummo trovati e fermati dalla polizia ancora una volta. Uno dei poliziotti mi spinse a terra e cominciò a strattonarmi. Mentre lo faceva, sentivo spine nel mio corpo. A un certo punto dallo sfinimento persi conoscenza. Più tardi mio marito mi disse che mi avevano rovesciato dell’alcol in faccia. Erano tutti ubriachi. Mi prendevano a calci e ridevano di gusto. Mi spruzzarono sulla faccia spray al peperoncino. Volevano che mio marito mi sollevasse da terra, ma lui non ci riusciva. Non riuscivo a muovermi, ma a loro non importava.

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Dopo un po’, due poliziotti mi sollevano da terra e mi lanciano dentro una macchina. Era mezzanotte quando fummo rispediti in Bosnia. Il mio viso bruciava. Non riuscivo ad aprire gli occhi. Mio marito accese un fuoco e trovò un bastone: cominciammo così a camminare attraverso il bosco per raggiungere il paese, un posto sicuro. Non era la prima volta che venivamo respinti dalla Croazia, ma quella volta me la ricordo molto bene.

La polizia in Croazia ci ha preso anche i cellulari e il caricabatterie portatile. Ridevano tutto il tempo. Non avevamo nemmeno il diritto di protestare e chiedere quello che era nostro.

Una volta provammo con un gruppo di persone. Era Dicembre e decidemmo di andare tutti al confine con la Croazia, chiedendo di passare. Nel gruppo c’erano famiglie con bambini malati, donne incinte, vecchi… Tutti stanchi, in piedi al freddo, sotto la neve, lontani dall’umanità.

Nessuno stava a sentire. Non solo, ma presto mandarono altri poliziotti e crearono una barriera di fronte a noi. E dovemmo tornare indietro. Tutti i nostri sforzi svanirono nel vuoto e dopo quella volta la situazione peggiorò.

Non volevamo rimanere in un campo in questo paese. Sono davvero pessimi, mancano le condizioni di base per poterci vivere. È insopportabile. Le persone che gestiscono i campi non ascoltano quello che abbiamo da dire. Non c’è acqua calda, le stanze sono sporche, le coperte sono sporche. Se chiedevamo qualcosa ci dicevano: “Andatevene dal campo, dormite per strada se non vi piace qui.”

picture by Miko Guziuk @unsplash

In febbraio finalmente Zahra e la sua famiglia raggiunsero la capitale della Croazia e per la prima volta venne loro permesso di richiedere asilo. Sono ancora nel campo e non sanno cosa ne sarà di loro. Per ora solo alcune famiglie del gruppo ce l’hanno fatta ad arrivare a Zagabria. Le altre sono ancora bloccate nel paese vicino al confine con l’Unione Europea, dal lato bosniaco, mentre si preparano per un altro “gioco”. La gente del posto li aiuta. Ogni tanto hanno dei problemi con le bande criminali della zona, ma non si arrendono. 

Durante gli scorsi tre anni, dal 2018, più di 70000 persone sono entrate in Bosnia nel tentativo di proseguire il loro viaggio verso i paesi del nord Europa.  

Nel 2018, quando il paese divenne parte attiva nella rotta balcanica non c’era nessun centro di servizi di alcun tipo per accogliere le persone che arrivavano. Ad oggi la politica in Bosnia non mostra alcuna intenzione di affrontare la questione. 

Nell’estate del 2018, l’Unione Europea decise di aiutare la Bosnia a “gestire le migrazioni”. Da allora hanno donato circa 100 milioni di euro, ma tutti i soldi sono andati all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e ad altre organizzazioni internazionali presenti sul campo. OIM e le altre organizzazioni gestiscono otto “centri di accoglienza temporanea”, ma nessuno di questi – a detta di abitanti e gruppi per i diritti umani – offre condizioni di vita accettabili. Ciò nonostante un enorme numero di persone decide di stare in questi centri, come Zahra e altre famiglie afgane che arrivarono in Bosnia da Lesbo.

In mezzo a confini europei fortificati, la vita è estremamente difficile, soprattutto per le donne. Sono spesso invisibili, e come tali, bersagli facili per chiunque. Confini chiusi e violenza da parte delle guardie di frontiera mettono in pericolo la vita di chi ha il coraggio di affrontare questi ostacoli, di chi crede che tutte le persone sono uguali e hanno gli stessi diritti, compresa la libertà di movimento e il diritto alla vita. 

L’Afghanistan rimane uno dei paesi più pericolosi al mondo, soprattutto per le donne. Tuttavia la maggior parte degli stati membri dell’UE considerano sicuro vivere lì e spesso respingono la richiesta di asilo di persone che scappano dagli orrori della guerra e del terrorismo. 

(Dato che Zahra sta ancora viaggiando con la sua famiglia, non pubblichiamo il suo nome completo né la sua foto, per non rischiare di rendere ancor più difficili il suo viaggio e i suoi futuri incontri con le autorità nei diversi paesi.)

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