“Vogliamo avere voce”

L’Associazione delle Donne Turche a Kreuzberg, a Berlino, è stata fondata 45 anni fa da lavoratrici stagionali. Le loro figlie e nipoti sono cresciute e hanno frequentato la scuola in Germania. Tuttavia spesso il sentirsi straniere le fa soffrire.

di Leonie Düngefeld/traduzione Marta Visentin

“Siamo adesso la seconda o terza generazione che vive qui. Ma i problemi che avevano i lavoratori stagionali nel 1975 esistono ancora.”

“Chi può decidere chi devi sposare?” c’è scritto in rosso e grassetto su un manifesto affisso alla parete. Una stanza quadrata con tre tavoloni, un’asse da stiro di fronte alla parete di fondo, cavalletti di legno appoggiati l’uno sull’altro in un angolo. La luce splende chiara da due lunghi, fluorescenti tubi sul soffitto. Persone che possono decidere chi devi sposare: Tuo zio? Tuo padre? I tuoi fratelli? Tua madre?

I tavoli sono ricoperti da tovaglie cerate. Su di loro barattoli con colore, viola, rosa e blu, accanto pennelli e pipette. Quattro donne chinate sui tavoli distribuiscono il colore con le pipette su della stoffa di seta bianca. Puntini, strisce e fiori. Gülsüm indossa un paio di jeans e un maglione a righe, i suoi lunghi capelli bianchi sono raccolti in una morbida treccia. Sembra tutta concentrata mentre stende del giallo su un pezzo di stoffa piegata. La cinquantasettenne è una delle cinque presidentesse dell’Associazione delle Donne Turche a Kreuzberg, a Berlino. Oggi, l’associazione invita a partecipare a un workshop creativo nelle sua sede vicino a Hermannplatz: pittura su seta.

Donne che venivano dalla Turchia hanno fondato l’associazione nel 1975 come gruppo di auto-aiuto. Erano arrivate a Berlino come lavoratrici stagionali. “Lo stato non erano affatto pronto,” dice Gülsüm. “Volevano solo la manodopera, nient’altro.” Per aiutarsi a vicenda, le donne si sono raggruppate. “C’erano corsi di alfabetizzazione, corsi di tedesco, di cucito, di dattilografia…” Insieme a una collega, Gülsüm riflette a voce alta. Lei stessa è venuta in Germania dalla Turchia con la sua famiglia quando aveva sette anni ed è diventata un membro dell’Associazione delle Donne nel 1980, quando era un’adolescente. Per i bambini c’erano gruppi di danza, aiuto per i compiti e un coro.

Dal 1979 l’associazione riceve aiuto finanziario dal governo locale di Berlino, dall’Ufficio Federale Tedesco per le Migrazioni e i Rifugiati (BAMF) e da una federazione per la parità. Quattro donne lavorano ora a tempo pieno per l’associazione. Sono educatrici sociali certificate e offrono consulenza ai membri su educazione e cura dei figli, violenza domestica, ricerca di un appartamento o di un lavoro. Insieme a volontarie, offrono workshop artigianali gruppi di discussione e seminari su problematiche legate alla salute e all’integrazione. Circa trenta donne vengono regolarmente agli eventi, il numero dei membri è molto più alto. L’associazione forma una rete con altre organizzazioni e organizzazioni ombrello, ed è anche politicamente impegnata.

Quando la Germania ha concluso l’accordo di assunzione con la Turchia nel 1961, che regolava le condizioni per cui ai turchi veniva permesso di lavorare nella Repubblica Federale, si presumeva che i lavoratori stagionali sarebbero poi tornati a casa. Inizialmente il soggiorno a lungo termine veniva perfino esplicitamente proibito. Eppure molti sono rimasti in Germania, e anche se i genitori sono tornati, spesso i figli sono rimasti. Molte cose sono cambiate da allora. “Ti basta sapere il nome di queste persone: a quei tempi erano lavoratori stagionali, oggi sono ‘persone con un passato di immigrazione’” dice Gülsüm. “Siamo adesso la seconda o terza generazione che vive qui. Ma i problemi che avevano i lavoratori stagionali nel 1975 esistono ancora.”

“Non serve neppure che dicano ‘Sei fuori posto,’ dice Gülsüm. “La mia impressione è sufficiente per sapere se vengo accettata o no.”

Gülsüm stende un po’ di colore, mette della nuova stoffa di seta sul tavolo, mostra alle altre donne quella che ha dipinto 25 anni fa. A un altro tavolo, una donna si dedica a della stoffa di seta tesa in un telaio di legno. Ha dei fiori gialli sopra. Con un pennello stende del colore azzurro sulle aree tra i fiori. “Prima dovete bagnare la stoffa,” Gülsüm richiama a voce alta mentre controlla in giro. “Così il colore scorrerà meglio.”

Poco è cambiato per la comunità turca riguardo alla partecipazione politica e al mancato senso di appartenenza. Gülsüm e le sue colleghe parlano delle loro esperienze a scuola, di quando cercavano un appartamento e della vita di tutti i giorni. Descrivono situazioni in cui si sono sentite alienate ed escluse a causa del loro aspetto, del loro nome, del loro accento. “Non serve neppure che dicano ‘Sei fuori posto,’ dice Gülsüm. “La mia impressione è sufficiente per sapere se vengo accettata o no.”

Da bambina, giocava con bambini tedeschi per strada nel quartiere di Kreuzberg. Poi, gradualmente, le famiglie tedesche si sono trasferite in altri quartieri. “Persone che si definiscono alternative o cristiane, che parlano di beneficenza, se ne vanno da Kreuzberg per evitare che i propri figli vadano a scuola con bambini immigrati,” protesta Gülsüm. “E i loro figli diventeranno accademici. Non hanno alcun rapporto con la base, con la gente. Perché non ci hanno vissuto insieme.”

Racconta di una vicina con cui ha vissuto nella stessa casa per anni. Erano incinte nello stesso momento; i loro bambini andavano allo stesso asilo. “Anche se la salutavo sempre in maniera amichevole, niente di tutto questo è mai tornato indietro,” dice Gülsüm. Un giorno all’asilo quella donna ha chiesto che venisse fatto di più per l’integrazione. E io ho pensato: se vuoi fare qualcosa per l’integrazione, dovresti cominciare da te stessa. Questa ostentazione, non ci fa per niente bene. Non è sincera.

Quindi come possiamo davvero raggiungere l’integrazione? “Non ho una ricetta,” dice Gülsüm, alzando le spalle. “Magari enfatizzando che siamo una società multiculturale. La Germania è un paese di immigrazione, questo è certo. Perché un inglese o un francese può avere la doppia cittadinanza e io no? Io, che sono cresciuta qui?” Questo deve cambiare, dice, solo dopo potremo parlare di vera integrazione. “L’integrazione non è una strada a senso unico. È a doppio senso,” dice. “Faccio del mio meglio per imparare, ma voglio anche essere vista. “

Gülsüm piega i foulard di seta sull’asse da stiro, poi rimuove i residui di colore dal tavolo con della carta. La sua collega è seduta accanto a lei e parla di ciò che l’Associazione delle Donne Turche sostiene politicamente: “Chiediamo parità. Pari diritti di voto. E quote rosa per legge. Perché migranti o no, le donne in Germania non vengono trattate allo stesso modo.” “Non solo vogliamo essere viste, vogliamo anche avere voce in capitolo,” spiega Gülsüm. Una ragazza con una giacca in jeans guarda sicura dal manifesto sulla parete. Chi decide chi sposi? “Io!” si vede scritto in rosso e grassetto in un fumetto vicino a lei.

 
Leonie Düngefeld è una giornalista che vive a Berlino. Sta al momento svolgendo un tirocinio con la rivista KULTURAUSTAUSCH e lavora come redattrice freelance su vari temi, quali ad esempio clima, migrazioni e politica.

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